Lo scorso dicembre sono stata invitata al convegno “Il viaggio e l’incontro”, una giornata di riflessione sul turismo nel continente africano ottimamente organizzata dalla Rivista Africa alla Fabbrica del Vapore a Milano.
Come titolo ho proposto “Le domande del viaggio”, un tema cui si dedica poco spazio perché si privilegiano sempre le destinazioni (cioè il dove andare e non il perché e il come viaggiare), mentre è un argomento che meriterebbe più attenzione per poter scegliere i nostri viaggi con maggior consapevolezza.
Dopo una necessaria premessa sull’evoluzione del viaggio dagli anni ’70 a oggi, la rivoluzione digitale, le vacanze, il turismo e l’overtourism, sono entrata in tema. Qui mi limito a offrire qualche spunto su una domanda, la prima e più importante: perché viaggiare? Per noi il viaggio è una scelta non dettata dalla necessità, come avviene invece di norma per chi emigra. Fa parte del superfluo come molte altre cose che affollano le nostre vite (ma superfluo non vuol dire inutile…). Se dunque non è una necessità, cosa ci spinge a partire? Una domanda che è la stessa per tutti, ma le motivazioni e le risposte possono ovviamente essere diverse.
Probabilmente per la maggior parte di coloro che stanno leggendo il viaggio è prima di tutto una passione e un piacere e quindi volentieri accettiamo anche la fatica, i costi e l’investimento di energie e di tempo che comporta. Ma proviamo ad andare oltre questa affermazione piuttosto scontata. Per me il viaggio è stato ed è una terapia. Il viaggio permette di staccare, di rigenerarsi, di guardare a se stessi e alle cose da una diversa angolazione, di mettersi alla prova. È capace di dare forza, autonomia, capacità decisionale, autostima: tutti strumenti utili per affrontare il quotidiano e orientarsi nella vita. Il viaggio genera piacere, per qualcuno funziona come una droga e crea dipendenza, ma è una droga che non fa male, anzi. Certo non è la sola terapia possibile, per qualcuno funzionano meglio psicoterapia, yoga, sport, musica, lettura o anche religione, lavoro o shopping… Il viaggio al suo meglio è però capace di coniugare molti di questi elementi insieme nelle dosi che ognuno preferisce.
Onestamente dobbiamo però anche chiederci se il viaggio oggi possa ancora funzionare come una terapia o se non ce la stiamo raccontando. Nel mondo globalizzato ritroviamo ovunque le stesse icone, gli stessi simboli, gli stessi prodotti al posto di quello straniamento così centrale nell’esperienza dell’altrove. Il turista rimane nella sua “bolla” e le possibilità di incontro e di scambio con le popolazioni locali sono nella maggior parte dei casi limitate all’acquisto di servizi o a esperienze frettolose. Come nell’arte e nella musica, anche nel turismo l’industria si appropria degli stimoli, anche dei più eversivi e anticonformisti, e li trasforma in moda per fare di noi clienti e consumatori passivi. L’industria turistica ha trasformato non solo la vacanza, ma anche il viaggio in semplice evasione e diversione, l’ha rinchiuso in circuiti standardizzati e stereotipati, con la continua pressante sollecitazione a fare, a consumare, a riempire il tempo libero di cose, di gente e di rumore. Come ha scritto Michel Houellebecq, “Il viaggio è solo uno dei tanti bisogni indotti dall’industria dell’evasione”.
Eppure, anche se incantamento e stupore sono merce sempre più rara, anche se è sempre più difficile fare esperienze “extra-ordinarie”, cioè diverse da quelle abituali, anche se il turismo è diventato una delle industrie più lucrative, il viaggio, se è un buon viaggio, è “l’unica cosa che comperi e che ti rende ricco” come recita uno slogan che mi sento di condividere.
Altro dubbio lecito: è necessario andare a sperimentare di persona quando abbiamo a disposizione strumenti che ci permettono di farlo virtualmente? Ad esempio è possibile osservare opere come la Cappella Sistina o il Cenacolo molto meglio digitalmente che accodandoci a grandi folle per i nostri 10’ di realtà. La mia risposta è “sì, è ancora necessario”. Forse è diverso per chi è nato e cresciuto nel nuovo millennio, ma io appartengo alla generazione vissuta a cavallo fra l’analogico e il digitale, quella che ha iniziato a viaggiare negli anni ’70 e, nonostante i miracoli della realtà virtuale, continuo a pensare che la ragione del viaggio sia fare esperienza del mondo e che se manca quella manca tutto.
Un’altra critica spesso mossa al viaggio: più che terapia, esperienza e ricerca, il viaggio è fuga, è l’indice della nostra insoddisfazione ed esprime una mancanza. Confesso di riconoscermi anche in questa definizione perché onestamente credo di continuare a viaggiare anche per colmare un vuoto. L’etimologia stessa della parola “vacanza” viene da vacuum, cioè appunto “vuoto”. Questo non vuol dire che la nostra vita sia vuota. Anzi, spesso è fin troppo affollata di impegni e obblighi, ma la routine inevitabilmente l’appiattisce, la rende noiosa e la svuota di interesse. Diciamo che il viaggio è terapeutico anche in questo senso. Un concetto quello del vuoto che trovo perfettamente espresso nei Travellers di Bruno Catalano, un artista francese nato in Marocco e di origini siciliane. Sono uomini e donne di diverse etnie e classi sociali, tutti in cammino, tutti con una borsa o una valigia in mano. Il corpo è lacerato e vuoto, un braccio e il bagaglio permettono alla statua di reggersi, sembra un’illusione ottica. Quello che colpisce è lo strappo (e il viaggio è sempre uno strappo) e soprattutto il vuoto, un vuoto che sembra pieno, a cui istintivamente restituiamo una forma.
Allo stesso modo il viaggio riempie i nostri vuoti con esperienze ed emozioni, mette in moto tutti i sensi e non solo lo sguardo. Poi trasforma esperienze ed emozioni in ricordi. Oggi sappiamo, come conferma la risonanza magnetica registrando l’attività dei nostri neuroni, che sono proprio le emozioni e i ricordi a renderci vivi: noi siamo corpo e siamo memoria. Quindi sì, il viaggio colma un vuoto, così come fa l’operazione contraria e altrettanto utile e cioè fa un po’ di vuoto dentro e intorno a noi, ci fa rallentare. Anche se parole come vuoto, ozio, silenzio e solitudine sono connotate negativamente in una cultura utilitaristica come la nostra, il vuoto può essere anche positivo ed è una dimensione che riscopriamo più facilmente viaggiando, quando il nostro mondo sta tutto dentro una valigia.
E allora, perché viaggiare? Perché “Vivere una sola volta / in una sola città / in un solo paese / in un solo universo / vivere in un solo mondo / è prigione” come ha scritto Ndjock Ngana, poeta del Camerun.
Testo e foto di Anna Maspero | Riproduzione riservata © Latitudeslife.com
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FONTE : LATITUDE TRAVEL MAGAZINE