MA IL TURISMO A CHE COSA SERVE?
Era in costante crescita, era considerato un bene primario, occupa(va) milioni di persone. Ora è il settore che soffre più di tutti. Ma non è soltanto un problema economico: per il turismo è in corso una crisi esistenziale. Avrà ancora senso? Un grande tour operator pone domande inedite per immaginare il futuro della sua professione, e dei nostri viaggi. Con all’orizzonte alcune parole chiave non scontate: solidarietà, qualità, conoscenza.
Leggendo l’ennesimo bollettino di guerra Istat con i dati del PIL dell’ultimo trimestre (in cui si evidenzia che il turismo è il settore che soffre più di tutti), mi ha sorpreso una considerazione: qui non si tratta solamente di un problema economico, ma, se così posso dire, di una crisi esistenziale. In trent’anni di avventura professionale, credevo di essere passato attraverso tutte le tipologie possibili di crisi (rivolte, attentati, pestilenze, terremoti, tsunami, crisi economiche…), gestendole come qualcosa tutto sommato di prevedibile e, in quanto tale, affrontabile; stavolta, però, è in gioco il senso stesso di sopravvivenza di un’attività economica quale la mia.
Cerco di spiegarmi: sin dall’inizio, si è identificato nei viaggi e negli spostamenti il responsabile principale di diffusione dell’epidemia: chi cercava di tenere in piedi la propria attività di organizzatore di turismo veniva additato come untore, mentre tornavano a diffondersi le annose dicerie per cui il turismo verso l’estero è un’attività inutile, se non dannosa (drena ricchezza al paese, inquina, è un lusso inutile, crea disagi da ‘over-tourism’, etc.).
Ci siamo trovati ad affrontare un semestre a fatturato zero, con tutti i nostri investimenti per il 2020 da gettare nel cassonetto, tutto il personale impegnato a smontare affannosamente il lavoro già fatto e a riportare a casa in fretta e furia le migliaia di italiani rimasti incastrati all’estero. Nel frattempo, l’opinione pubblica ci guardava con sospetto, come affaristi privi di scrupoli. E alcuni “super-esperti” discettavano di un turismo del futuro totalmente diverso dall’attuale, fatto di piccole élites oclofobiche e di prezzi altissimi.
Mentre, quindi, cominciavamo a fare i conti del disastro economico, prendevano forma domande inedite, che sono il fulcro di questa crisi:
- Fino a quando rimarremo al palo?
- Basteranno tutte le riserve accumulate per fare fronte a questa traversata nel deserto?
- Quando ripartiremo, quale sarà la condizione psicologica ed economica del mercato, e quale situazione infrastrutturale (compagnie aeree, guide, alberghi, etc) troveremo? Quanto tempo ci vorrà a tornare ai volumi abituali?
- Dovremo ridurre le nostre dimensioni? Quanta della nostra gente dovremo lasciare a casa (prima di febbraio nella nostra azienda eravamo quasi 300)?
- In che condizione sociale ed economica saranno le nostre destinazioni turistiche (parlo per me: Cina, Brasile, India, Perù, Sudafrica…) a fine crisi? Sarà ancora possibile viaggiare in sicurezza?
- Se dovremo stare fermi per ancora un anno (probabile) o forse più, che cosa facciamo fare ai nostri collaboratori nel frattempo, per evitare che si demoralizzino e si arrugginiscano?
Dietro a queste domande (e a tutte le altre ad esse correlate) se ne profila un’altra, la più oscura di tutte: sarà ancora possibile il nostro turismo a fine crisi? Ha senso impegnarsi in questa resistenza ad oltranza per mantenere viva la nostra cultura e la nostra esperienza di artigiani del viaggio di qualità, o in futuro il modo (e i numeri) di fare turismo sarà così diverso da rendere inutile la sopravvivenza del Tour operators e delle agenzie di viaggi?
Davanti a questa sfida così inedita, la prima evidenza è che è inutile sforzarsi di mantenere il controllo: quando sei nella burrasca, l’orizzonte non si vede e si deve proseguire alla cieca, cercando di mantenere la rotta basandosi sulla sola forza della ragione. Quali sono le evidenze su cui ci appoggiamo, dunque?
- Questa non è una crisi strutturale del turismo, ma un incubo passeggero, per quanto terribile. Fino a gennaio, il turismo era in costante crescita: il viaggio era ormai considerato un bene primario, e la nostra industria era guardata con interesse crescente da molti investitori.
- Il nostro settore economico è molto singolare: fatturati cospicui e costi di struttura molto contenuti: la rigidità del capitale della maggior parte delle nostre aziende è molto bassa, e i costi principali sono dovuti al personale ed alle spese commerciali. La capacità di tenuta nel tempo è quindi onestamente buona, specie se il Governo ci aiuterà a salvaguardare i posti lavoro sostenendoci ora e, soprattutto, quando si ripartirà.
- La crisi ha risvegliato uno spirito solidale molto profondo, che attraversa tutta la filiera: ogni attore sa che non potrà salvarsi da solo, e, per prosperare, c’è bisogno che tutti i comparti siano in salute. Per questo, ognuno è pronto a fare la sua parte per tenere in piedi il settore.
- Quando si esce da una crisi, la domanda di qualità è sempre più alta e questo è tanto più vero in questo caso, per cui il mercato avrà un forte bisogno di professionisti del turismo organizzato, in grado di garantire tranquillità e sicurezza.
- Il turismo dà lavoro a milioni di persone e genera una ricchezza diffusa e riciclabile, dilatando le ricadute economiche a macchia d’olio.
Soprattutto, però, è una considerazione a sostenere la nostra speranza e la nostra tenacia: il nostro lavoro è utile. Viaggiare (e quindi mescolarsi con la gente, conoscere, aprirsi al mondo, alle sue culture, alle sue meraviglie e contraddizioni, confrontarsi con il diverso da sé) ha una funzione educativa insostituibile: serve a vincere il proprio provincialismo e i propri pregiudizi, a dilatare gli orizzonti, a migliorare come uomini e come cittadini del mondo. Ed è una riserva di emozioni e di esaltazione con pochi uguali. È inutile nascondersi dietro ragionamenti miopi e meschini (del tipo “l’Italia agli Italiani”): tutti abbiamo da guadagnare dalla reciprocità turistica, ma in special modo l’Italia. Ve la immaginate l’Italia senza Cinesi ed Americani?
Questo è il momento di restare lucidi e coesi, vincendo ogni tentazione di gettare la spugna, cercando di riuscire ad interpretare l’evoluzione della crisi e ad essere pronti ad adattarci al contesto che si verrà a creare, qualunque esso sia. Il mondo che verrà avrà bisogno anche di noi.