Il mondo che ci manca: Stefano Unterthiner, «All’Ile de la Possession, come l’ultimo uomo sulla terra, ma il più fortunato»
Spiagge coperte di pinguini, pochissimi esseri umani e la riscoperta del rapporto con la natura: il viaggio che ha cambiato la vita di Stefano Unterthiner
In un momento in cui la mancanza del viaggio inizia a pesare sulla nostra capacità di sognare e guardare verso grandi orizzonti, in cui la curiosità verso il mondo non sa come sfamarsi, il desiderio di avventura e diversità è tenuto a bada da troppo tempo, siamo andati alla ricerca di storie di viaggio che aprano il cuore e lo spirito. Avventure di persone diverse, su diversi itinerari, racconti che ci permettano di vivere un pezzo di mondo in più. Per ognuno dei nostri ospiti la domanda è «Qual è il mondo che ti manca?» chiedendogli di portarci fino a là con i loro racconti. Per Stefano Unterthiner, fotografo-divulgatore valdostano con un dottorato in zoologia, quel luogo si chiama Ile de la Possession (Isola della Possessione), isola remotissima dell’arcipelago subantartico di Crozet dove ha svolto uno dei primi viaggi per conto di National Geographic con cui collabora da oltre 15 anni. Noi gli abbiamo chiesto di raccontarci in che modo quest’isola incontaminata lo abbia posseduto.
«Quello all’Isola della Possessione era un viaggio che sognavo da tempo. Si trova in un gruppo di isole che vedono poche decine di viaggiatori all’anno, complice la difficoltà di raggiungerle. Non possono arrivarci gli elicotteri perché il viaggio è troppo lungo e naturalmente non c’è un aeroporto. Dal punto di vista della sicurezza, lì se ti fai male servono giorni perché qualcuno ti possa recuperare. Ma luoghi come questo, selvaggi e non contaminati dalla presenza umana, hanno sempre sollecitato la mia voglia di scoperta».
Quando ne ha avuto l’occasione, Unthertiner non ci ha quindi pensato due volte ed è partito con la compagna. «Vi abbiamo trascorso quattro mesi nel periodo dell’estate antartica a cui si è aggiunto il mese di navigazione necessario fra andata e ritorno. La nave che ci ha condotto lì rifornisce le basi scientifiche dislocate su queste isole; quella presente sull’Isola della Possessione accoglieva una trentina di persone. Ma non abbiamo trascorso tutto il tempo con loro; periodicamente facevamo delle missioni all’interno dell’isola per scattare, ospiti di casette per tre quattro persone in cui restavamo settimane in totale isolamento».
Il tipo di isolamento che si prova in zone come questa non è lontanamente paragonabile a quello che stiamo sperimentando a causa della pandemia. È un’esperienza totalmente inedita per un viaggiatore europeo e tanto radicale da smuovere emozioni e riflessioni in grado di cambiare la vita. «Sull’Isola della Possessione ho vissuto un ritorno alla nostra fragilità primitiva e mi sono sentito ancora più a contatto con i miei limiti e il mio essere animale fra altri animali. Ecco, sì, quell’esperienza mi ha aperto gli occhi su quello che è il rapporto uomo-natura originale che la società contemporanea ha completamente dimenticato; una dimenticanza che è la causa di tutti i nostri mali. Pensando all’attualità, ad esempio, oggi ci spaventiamo per un virus, non accettando il fatto che colpisce gli animali e che noi siamo animali; non fa altro che diffondersi e livellare quelle curve di popolazione che noi abbiamo stravolto. Noi abbiamo dimenticato del tutto quel tipo di rapporto con la natura e gestiamo tutto come fosse della merce, dei numeri, perdendo così il senso stesso della vita. Dovremmo invece ricordarci da dove veniamo, chi siamo e perché siamo qui per capire quale sia la strada giusta verso la felicità».
«Credo che la natura sia la ricetta per tutti i mali dell’umanità; in mezzo a essa ci sentiamo meglio ed emotivamente si accendono delle lampadine che neanche pensavi di avere perché la tua attenzione è diversa. Un processo che ti migliora e ti rende più sensibile. Questo viaggio mi ha cambiato la vita perché nonostante io avessi ben presente l’effetto benefico della natura su di noi, lì si è risvegliato in maniera profonda. Da quel viaggio ho sempre cercato di ritrovare quelle sensazioni, trovandole magari in posti come le isole Svalbard, ma non in una forma così acuta».
«Scogliere gigantesche, albatros nel cielo, spiagge coperte da pinguini, una bassa vegetazione che lascia presto il passo alla roccia non appena si sale un po’. Il paesaggio è piuttosto brullo, ma ricchissimo di fauna. Un paradiso naturalistico letteralmente coperto di animali, fra cui pinguini reali, elefanti di mare e orche che pattugliano le coste. Anche l’odore è singolare perché unisce quello del mare a quello delle alghe kelp. Guardi l’orizzonte e hai l’impressione che al di là non ci sia nessuno; ti sembra quasi naturale sentirti come l’ultimo sopravvissuto sulla Terra e che il mondo sia solo quello e non esista null’altro. Tutto ciò che succede al di fuori dell’isola finisce per non ti interessarti più. Una sensazione di estraneità dovuta all’isolamento estremo in cui sei inserito».
«Avevamo un tetto sulla testa, un letto a castello nel quale dormire, rifornimenti per uso scientifico, un po’ di gas per scaldarci la sera e una piccola lucina che usavamo con attenzione. Sì, molto spartano ma è la vita tipica di quando lavori sul campo e mi piace. La mattina ci svegliavamo, fotografavamo e tornavamo alla base per mangiare. Si cerca di recuperare le energie durante la parte centrale del giorno, poi di nuovo fuori a scattare, cena e a letto presto. Nelle giornate di pioggia ho riscoperto la noia e il tempo che scorre lento. Allora sull’isola non c’erano ancora cellulari, né televisione e radio. Ascoltavamo qualche canzone sul computer e chiacchieravamo. L’essere umano più vicino era a due ore a piedi. Oltre a quello il nulla se non l’oceano intorno».
Ma il fascino di un’esperienza del genere per alcuni può essere senza prezzo. Certo bisogna mettere in conto che i tempi per un viaggio così sono impegnativi. E non stupisce quindi che non ci siano grossi flussi turistici.
«Non esiste quasi l’idea del turismo e non ci sono strutture ricettive. L’unica possibilità di vederla è una crociera che vi fa tappa per due giorni, giusto per il tempo che l’elicottero rifornisca la base scientifica. I passeggeri possono scendere e vedere alcune zone. Chi ci va per turismo inoltre deve sopportare anche una navigazione che in alcuni casi avviene in mari molto impetuosi. Ci sono isole analoghe in cui l’esperienza è più facile per un turista, tipo le Falkland e quelle della Georgia del Sud».
«Il ritorno a casa è stato pieno di malinconia. Verso quei luoghi che stavo abbandonando e che forse non avrei mai più rivisto in quel modo. L’uomo ha dato la sua impronta quasi ovunque nel mondo ed è drammatico. L’unicità di posti come l’Isola della Possessione purtroppo sta scomparendo».
Fonte ed articolo completo : https://www.vanityfair.it/viaggi-traveller/notizie-viaggio/2021/01/06/isola-della-possessione-stefano-unterthiner